Le pitture e i graffiti rupestri sono parte dell’eredità che, insieme ad armi e utensili di pietra, l’uomo preistorico ci ha lasciato. I soggetti sono spesso animali primitivi e più raramente silhouettes umane nell’atto di cacciarli. Alcuni di questi animali si sono estinti per il radicale cambiamento climatico, ma la prova della loro esistenza è rappresentata sulle pareti delle grotte.
Non si sono estinte invece le emozioni che hanno spinto i nostri progenitori a compiere riti propiziatori nelle profondità delle caverne invocando il buon esito della caccia. Né si sono istinti quei bisogni primari. La paura di non sopravvivere, il bisogno di mangiare, per dirne due.
Lo racconta con toni esilaranti Roy Lewis nel suo “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene”, un libro sorprendente.
Sono passati millenni da allora, abbiamo quindi un buon vantaggio nel guardare a quell’epoca e trarre ispirazione per un atelier che vada oltre la nozione storico-artistica puntando al cuore delle emozioni e dei bisogni che ancora oggi tentiamo di governare.
Volendo far fare ai miei studenti un’esperienza pittorica emozionale, e non avendo disponibilità in classe di grasso animale con cui impastare zolle di terra e ottenere gli ocra e i rossi…o non potendo ardere arbusti in giardino da cui ricavare grossi pezzi di carbone per il nero…mi sono orientata verso l’utilizzo dei pastelli a olio. Il pastello a olio, così come i primi pigmenti preistorici, è grasso e sporca molto. Ha un segno sempre corposo, sottile se usato con la punta, largo se usato di taglio. Produce delle barbe, cioè delle piccole parti in eccesso che assomigliano a delle briciole. Queste possono restare attaccate al foglio per un effetto-rilievo o dolcemente spolverate da parte. Il pastello a olio è generoso, si spende completamente, si usa con facilità, si adatta alla nostra mano e al tipo di superficie. Si consuma del tutto fino a nascondersi sotto le unghie. Richiede decisione e garbo restituendo il temperamento dell’autore o dell’autrice. Dopo aver usato i pastelli a olio non ci si lava subito le mani. Prima si sfregano bene per scaldarle e far sciogliere l’olio. Quindi si passa uno straccio tra le dita per togliere una prima parte di residui. Poi ci si insapona ben-bene a secco e solo dopo si risciacqua con abbondante acqua.
A quante accortezze deve tener testa il cervello di chi dipinge con il pastello a olio! Un’eccellente prova logico-manuale ed emozionale: teniamo presente che il pastello a olio, se di qualità, profuma mentre lo si usa. È come un fiore che sboccia, la sua fragranza si imprime nella memoria olfattiva creando un’atmosfera di atelier come poche altre tecniche su carta.
E torniamo all’era primitiva proponendo un soggetto da rappresentare con questa tecnica: un mammut direi.
Si predispone sul tavolo un foglio di carta di giornale.
Sopra si appoggia un foglio di carta o cartoncino delle dimensioni di metà foglio A4.
Evitiamo carta da fotocopia et similia, qui si fa la preistoria! Perciò niente leggerezze, meglio cartoncini delle confezioni alimentari, o di certi capi di abbigliamento, come le camice, o il più rinomato album da disegno robusto e liscio.
Si stende con generosità uno strato di pastello a olio chiaro, per esempio il giallo, coprendo tutta la superficie del foglio: con tutta si intende tutta, anche i bordi, anche gli angoli, si invada pure il foglio di giornale che è sotto, è lì per questo motivo.
Una volta completata la stesura, detta anche mano, si passa sopra uno strato di pastello a olio molto scuro, per esempio il nero. Non lesinare.
Si procede incidendo con un moderno oggetto contundente (stuzzicadenti) la morbida superficie, ottenendo la sagoma desiderata che viene poi rivestita, graffio dopo graffio, da una calda pelliccia in grado di fronteggiare i ghiacci primordiali.
Voilà. 11 anni.
Mammut, Nicolò
Per realizzare questo mammut ci sono volute due ore di prove e tre ore di pittura a pastello a olio. Cinque ore di impegno nella vita di un preadolescente sono praticamente un’era geologica! Pertanto l’elaborato va ben oltre il mero risultato estetico: è prova dello sforzo profuso (silhouette), della cura (pelliccia), della finezza (pelliccia mossa dal vento), della forza (stabilità delle zampe). Questo non è un mammut è il ritratto di Nicolò.
Viene da chiedersi, data la tempistica, se questa non sia una tecnica troppo laboriosa. Lo è. Almeno quanto è laborioso sconfiggere la reticenza-pigrizia-paura di sporcarsi le mani, la maglietta e la faccia, o la sensazione diffusa di non essere capace di portare a termine il proprio lavoro, la propria battuta di caccia…. Laboriosa almeno quanto il bisogno di nutrirsi di quella stima e di quella fiducia in sé stessi e negli altri che non sono mai abbastanza, per tutta la vita.
Oggi sappiamo, abbiamo la distanza per saperlo, che un atteggiamento entusiasta e dinamico può farci uscire dalla nostra grotta, ci può sfamare, far crescere, evolvere e ci permette attraverso il nostro operato di dare l’esempio, ispirando chi ci circonda. Ecco che il pastello a olio non è più solo una tecnica pittorica. Se usato con l’obiettivo di far emergere le nostre profonde emozioni, si trasforma in una metafora sul come affrontare le sfide e gli ostacoli del quotidiano. I quali, a qualche millennio di distanza, sono sempre gli stessi.
Eh già, non ci siamo inventati niente…pre-historia est magistra vitae.
C’est la vie – scena di caccia – Andrea, 12 anni.
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